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19 Mar2020

Quarantena molotov. Normalissime evasioni. Prima puntata

19 Marzo 2020. Written by Redazione_am. Posted in Récit

Giugno 2018. La banda di Alpinismo Molotov si muove insieme.

Prima di partire

Il “bacillo dei sassi” si manifesta con modalità molto diverse tra loro, trova il modo di palesarsi anche in situazioni limite. Così anche in questi giorni di quarantena ed uscite contingentate si fa largo tra decreti, ordinanze e posti di blocco per trovare il modo di esprimersi. Andare in montagna ora diventa quasi un’utopia, ci si sente come Felice Benuzzi che dal campo di prigionia osserva il Monte Kenya. Tuttavia ciascuna e ciascuno di noi per fare la spesa, per costrizioni lavorative, per le esigenze del cane o anche “semplicemente” per non impazzire esce di casa e cammina.
In questo contesto quelle che in altra situazione sarebbero normalissime passeggiate diventano “altro”, diventano vere e proprie escursioni molotov. Anzi, in questo scenario di parchi chiusi, controlli e barriere, è possibile che siano le uscite più molotov che ci sia mai capitato di fare. In fondo «[…] l’alpinismo è “molotov” nella misura in cui fa emergere nuove contraddizioni e nuovi strumenti concettuali, narrativi cognitivi per affrontarle. Si va in montagna per tornare con “nuove armi” da sfoderare nella nostra quotidianità Si va in montagna consapevoli che si procede sempre in bilico». (cfr. il manifesto di Alpinismo Molotov).
Mai come in questo momento abbiamo bisogno di far «emergere nuove contraddizioni» e dotarci di «nuovi strumenti, concettuali – narrativi – cognitivi».
Da qui l’idea di raccontare le nostre escursioni – poco importa se di chilometri lungo fossi o di poche centinaia di metri per fare la spesa – nel tentativo di inquadrare da prospettive oblique quel che ci circonda e restituire ex post, almeno nel racconto, la dimensione collettiva di quel procedere a passo oratorio che oggi ci è negata. Ecco dieci racconti di fughe molotov dall’isolamento in casa.

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09 Mar2020

Mi smo tu / Noi siamo qui: sul confine tra l’Isonzo e la Balkan route

9 Marzo 2020. Written by Redazione_am. Posted in Récit

Questo post nasce dopo un’escursione sul Carso triestino seguendo i sentieri percorsi dai migranti. A spingerci la retorica sull’invasione e le continue richieste di provvedimenti straordinari e strumenti tecnologici (ultimo caso, l’ipotetico ricorso alle fototrappole) a fare da argine ai passaggi di persone attraverso i confini.

Nel frattempo l’escalation di violenza di questi giorni – caratterizzata dall’ipocrisia della faccia moderata dell’Unione europea, più fascista dei fasci stessi, come abbiamo visto in Grecia dove del resto anche i fascisti sono impegnati, Alba dorata in testa, nella caccia al migrante – ha spostato su un piano se possibile ancora più deteriore e repressiva la politica verso i migranti.

È domenica mattina, il cielo è coperto e noi quattro stiamo per percorrere una delle tratte finali della “Balkan Route” al contrario. Attraverseremo la frontiera dal bosco, perché oggi noi possiamo farlo. Cammineremo un passo dopo l’altro lungo una delle vie di entrata in Europa su cui hanno mosso i loro passi migliaia di persone in fuga da guerre, violenza, repressione politica, o semplicemente in cammino, vive, con lo sguardo aperto verso ciò che verrà.
“Quando senti parlare del Carso ti immagini un territorio lunare, un cumulo di pietre scaricato dagli dei sulla terra Kras”, dice Davide, che del Carso conosce ogni piega, ogni pietra, sentiero e anfratto. E ogni singolo accento della lingua locale, che è anche la sua.

Il Carso terreno duro, aspro, a tratti gentile. Un territorio brutalmente lacerato dalle XII battaglie dell’Isonzo e poi dalla Seconda guerra mondiale che ha lasciato molte ferite aperte. Alcune come in questi giorni si riaprono nel giorno in cui i fascisti carnefici si mascherano da vittime. Una striscia di terra, questa, che ha dato aiuto alla resistenza partigiana, quella che da est ha liberato queste terre dal nazifascismo affermando: “Mi smo tu” (noi siamo qui), come riecheggia in un inno dei partigiani del Litorale che viene tuttora cantato ogni anno alla Risiera di San Sabba il 25 aprile.

Una terra divisa in due da un confine invisibile, alberi e rocce calcaree, taglienti come lame, prati e voragini che si aprono all’improvviso, fiumi sotterranei che continuano per chilometri unendo un territorio che la politica ha diviso e continua a farlo. Un frontiera invisibile che riprende forma con le resistenze di oggi, quelle dei migranti che attraversano questi boschi e camminano su queste pietre, le stesse su cui camminiamo noi, respirando libertà.

Le prime vittime del “viaggio” di cui possiamo ricordarci risalgono agli anni Settanta. Morirono in tre. Congelati sulle pietre del gelido Carso. Trovarono pace grazie al sindaco partigiano che di morti in cerca di libertà ne aveva visti molti.
Una storia ormai molto lontana, ma qui si continua a passare, sperare, morire… L’ultima delle vittime è caduta poche settimane fa, all’alba del primo giorno di questi anni Venti. Si tratta di Sid Ahmed Bendisari, precipitato da venti metri di altezza in fondo ad un burrone sotto il monte Carso poco distante dal castello di San Servolo. Un errore nel percorso, la stanchezza, forse un inciampo e scivola giù. Avrebbe compiuto trent’anni il prossimo 8 novembre. Impossibile trovare il suo nome sulla stampa nella consueta damnatio memorie riservata alle morti dei migranti. Morte di un padre. Sua moglie era con lui. Loro figlio attendeva ad Aïn Témouchent in Algeria a neanche trecento chilometri da Melilla, Spagna, Europa. Per tentare di raggiungerla sua mamma e suo papà dopo aver attraversato il nord Africa hanno proseguito il viaggio fino alla Turchia, quindi ai Balcani e quindi la morte a Trieste in una sorta di circumnavigazione terrestre del Mediterraneo per evitare un muro.

***

Vogliamo cercare di capirne qualcosa di più, per questo ci siamo detti, la cosa migliore è andare, muovere i nostri passi tra questi boschi e queste rocce. La nostra storia parte a pochi chilometri da Trieste, da Boršt, tradotto, chissà perché, Sant’Antonio in Bosco, frazione del comune di Dolina, San Dorligo della Valle come era stato goffamente italianizzato. In una giornata uggiosa di inizio febbraio ci avventuriamo nella landa carsica avvelenata dai nuvoloni neri che come ogni anno imperversano sopra Bazovica/Basovizza il 10 del mese. Questo febbraio, come non accadeva da almeno trent’anni, nazionalisti e ultradestra hanno perfino organizzato, senza nessuno che vi si opponesse come in passato, un corteo per le vie del paese: un reflusso di putrefazione e morte aliene alla terra che calpestiamo.

Ci incamminiamo – Elena, Alessandro, Luca e Davide – percorrendo una delle vie dove i migranti sognano la libertà ma molto spesso cadono nelle trappole della paranoia creata dai politicanti per avere un consenso politico. Tutto qui si trasforma in futuri voti per il lato marcio della nostra società, i politici saldamente ancorati sulle loro sedie e quelli che da loro si aspettano dei favori.
Il Carso di oggi è un misto di elementi diversi non solo umani: animali, vegetali e perfino minerali qui convivono senza l’assurda pretesa di affermare “questo è il mio territorio”, cosa che noi bipedi pensanti non capiremo mai. Nel bosco ci sono diverse varietà: querce, frassini, carpini e pini.

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18 Feb2020

Partigiani d’Oltremare, ribelli della montagna

18 Febbraio 2020. Written by Redazione_am. Posted in Libri

Da alcuni giorni nelle librerie è finalmente disponibile Partigiani d’Oltremare. Dal Corno d’Africa alla Resistenza italiana di Matteo Petracci. È una notizia che apprendiamo con grande piacere, non solo perché tracce di questo libro sono impresse nell’edizione 2018 della nostra festa “Diverso il suo rilievo” – che in quell’anno si tenne sull’altipiano di Macereto, nelle Marche –, quando Matteo accompagnò con le storie che sono ora raccolte nelle pagine di questo volume un’escursione (per la precisione, due escursioni: una di sabato e una di domenica) a passo oratorio; ma soprattutto per le emozioni che Matteo e quelle storie narrate ed evocate riuscirono a imprimere durante quelle giornate e che, con la pubblicazione del libro, oggi potranno essere vissute da un pubblico più vasto.

Le vicende di questi africani che combatterono il nazifascismo in provincia di Macerata, su declivi a portata di vista dall’altipiano di Macereto, sono un caso esemplare di una chiave interpretativa della resistenza armata al nazifascismo che è stata erroneamente sottovalutata, quella di una Resistenza «italiana» che fu multietnica, creola, internazionalista e migrante. Questa interpretazione in una certa misura va beneficamente a contaminare e “sporcare” quella essenzialista della “purezza della Montagna”: se le montagne sono state spazi – geografici e sociali – di resistenza alle forme di dominio succedutesi nei secoli, non possono che esserlo state perché luoghi di attraversamento, d’incontro e di conflittualità. Spazi dalle increspature ruvide, così come la resistenza al nazifascismo in Italia è tutt’altra cosa che una narrazione liscia e compatta, come vorrebbero sia l’ondata revisionistica che la retorica monumentalizzante.

Partigiani d’Oltremare è scritto da uno storico con strumenti e metodi propri della storiografia, ma Matteo Petracci non si è limitato a questo: a seguire la ricostruzione storica delle vicende di questi liberatori d’Oltremare, nel volume sono presenti tre epiloghi – Tutti a casa, o quasi; Il corpo di un caduto; La figlia di un superstite – dal piglio più narrativo in cui viene raccontato quali stuporosi incontri possono nascere da un percorso di ricerca che rappresenta, fattivamente, un caso di fare storia attivo e partecipativo.

E a conferma di questa tensione segnaliamo la proposta di due appuntamenti per ripercorrere il cammino che i partigiani d’Oltremare, dopo la fuga da Villa Spada di Treia, percorsero per raggiungere l’abbazia di Roti, base dei ribelli sul Monte San Vicino: dal 30 aprile al 3 maggio e dal 10 al 13 settembre, accompagnati (dalle storie e dalle parole di) Matteo Petracci e Wu Ming 2. Per chi volesse partecipare, tutte le informazioni si possono trovare qui.

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22 Gen2020

Migranti e montagne: con gli occhi puntati sui due estremi dell’arco alpino

22 Gennaio 2020. Written by Redazione_am. Posted in Staffette

Che le Alpi siano tornate a essere attraversate forzando e raggirando il confine è oramai un dato di fatto conclamato. Chi non ha le carte in regola – e non per modo di dire, ma letteralmente – da alcuni anni compie attraversate improvvisate e pericolose, anche invernali, dei passi alpini. In particolar modo si è spesso fatto riferimento alla cosiddetta “rotta valsusina” verso la Francia, lì dove hanno preso forma iniziative di solidarietà attiva con le e i migranti, cortei sulla neve (qui raccontammo a nostro modo la giornata “Briser les frontières”), ma anche dove sono state messe in scena coreografie “alpinazi” con presenza di fascisti e nazisti in montagna (ricordate “Defend Europe – Mission Alpes” e “Generazione identitaria”?) su cui scrivemmo già a suo tempo parole incontrovertibili:

Per noi la montagna è altro, è innanzitutto luogo di memoria e di resistenza, di incontro e confronto. È solidarietà.

Luigi D’Alife segue da anni, come attivista e videomaker, la situazione al confine in alta Valsusa. A inizio 2018 lo intervistammo per Alpinismo Molotov proprio sulla situazione tra Bardonecchia e il Colle della Scala, evidenziando già nel titolo di quel post che le Alpi, ahinoi, erano tornate a essere «confine reale e disumano». Circa un anno dopo una nuova intervista, con Claudio Cadei e Nicola Zambelli, incentrata sul loro progetto The Milky Way, un docufilm il cui tema centrale è proprio l’attraversamento da parte delle e dei migranti del confine italo-francese, allora in lavorazione e in cerca di sostegno attraverso un crowdfounding (a cui anche Alpinismo Molotov partecipò).
Con piacere segnaliamo che The Milky Way è ora terminato e sono state annunciate le date delle anteprime (che trovate nella locandina pubblicata sotto). Ci auguriamo che il docufilm trovi spazio nella programmazione delle sale e che in molte e molti lo vedano.

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03 Dic2019

#AlpinismoMolotov alla marcia #NoTav dell’8 dicembre 2019

3 Dicembre 2019. Written by Redazione_am. Posted in Staffette

Anche quest’anno Alpinismo Molotov sarà presente all’8 dicembre No Tav.

La marcia sarà da Susa a Venaus, con meta la Borgata 8 dicembre, così titolata a memoria di quel giorno di quattordici anni fa in cui il popolo No Tav cacciò guardie e cantieri dai prati della Valcenischia, di fatto bloccando per due lustri il progetto della Torino-Lione.

Quest’anno, nel decennale della giornata contro le Grandi Opere Inutili e imposte, crediamo sia particolarmente importante esserci, poiché  l’attuale governo ha dichiarato – anche per voce di ministri pentastellati, fino all’altro ieri No Tav sfegatati – che quest’opera è da eseguire e a breve si apriranno i cantieri.

Da anni noi di Alpinismo Molotov sosteniamo il movimento No Tav – di più, «Alpinismo Molotov è costitutivamente No Tav» – per vicinanza umana, complicità… perché quell’opera non è solo un treno: è uno spreco di denaro, un attacco devastante al territorio, una scelta scellerata in un paese in cui due giorni di pioggia cancellano vite, strade, edifici.

Il Tav è l’emblema di una politica di sviluppo fallimentare, di un modello che riproduce se stesso attraverso le grandi opere, e con esso repressione, violenza, corruzione, estrazione di ricchezza ai danni di noi tutt*, dell’ambiente e del clima.

Le conseguenze del cambiamento climatico ormai ci sono ripetutamente arrivate in faccia come schiaffi, perseverare con politiche di grandi opere ignorando la necessità di messa in sicurezza dei territori è scellerato.

Quel progetto è poi anche repressione: 20 attivist* stanno per essere incarcerati, Luca Abbà sta vivendo un regime di semilibertà assurdo (per una manifestazione di 10 anni fa), Nicoletta Dosio, 73 anni, è stata anch’essa condannata al carcere, anche se la vicenda non è ancora conclusa.

Per tutti questi motivi la bandiera di Alpinismo Molotov domenica sarà nuovamente in Valsusa, a fianco della Valle che resiste.

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17 Set2019

Le fogne di Nuova Delhi e il sacco dell’umido: riflessioni a partire dal Jova Beach Party. Su #Giap

17 Settembre 2019. Written by Redazione_am. Posted in Rizomi / Esplorazioni

Nel corso di quest’estate 2019, riempiendo di commenti l’infosfera, ha tenuto banco la querelle sul Jova Beach Party e le critiche mosse a questo mega-show spiaggiato su alcuni tratti di litorale italiano. A seguito della presa di posizione critica di Reinhold Messner rispetto alla location di Plan de Corones – Kronplatz per una data di questa tournée – l’unica data non organizzata occupando lo spazio di un arenile – avevamo dato conto di una discussione nel retrobottega di Alpinismo Molotov, pubblicata in un post dal titolo Sul binomio musica e montagna: tracce di una discussione sugli eventi in quota. Si trattava, con quel post, di riprendere e cercare di mettere a fuoco alcune questioni che riteniamo centrali nel modello di fruizione/sfruttamento delle montagne, cosa che lo scambio polemico Messner-Jovanotti ci offriva l’occasione di fare:
Tra i punti emersi dalla nostra conversazione, il fatto che ciò che accomuna tutti questi grandi eventi in quota, o comunque nella cornice di un ambiente naturale di pregio, è l’essere per l’appunto, nella cornice. A nessuno importa che il medesimo spettacolo sia fruibile senza differenza alcuna in qualsiasi altro luogo, nel fondovalle o in città, le montagne sono un piacevole sfondo, un tocco di colore, tutt’al più la scusa per una simpatica gita fuori porta.
Il concerto a Plan de Corones – Kronplatz si è svolto, noi abbiamo seguito il flusso di notizie a riguardo, comprese quelle che lasciavano intendere una riappacificazione tra Messner e Jovanotti con un ripensamento del primo (e invece no, sull’inopportunità di organizzare un grande evento come lo è una data del Jova Beach Party Messner non ha cambiato idea). Nel contempo si susseguivano segnalazioni e denunce sulle criticità ambientali e sui danni che un mega-show come questo avrebbe inferto agli ecosistemi delle varie location scelte dal duo Jovanotti – Trident (l’agenzia che ha prodotto e organizzato la tournée). Questo nonostante l’ombrello rassicurante della partecipazione all’operazione del WWF Italia, coinvolgimento sbandierato a ogni occasioni da Jovanotti.
Ci siamo quindi resi conto, a un certo momento, che questa vicenda meritava di essere analizzata anche se ci portava lontano dalle montagne, siccome contiene una gran quantità di elementi ricorrenti, una miscela tossica e foriera di gravi danni. Ne è nato un testo a firma collettiva che viene oggi pubblicato su Giap con il titolo A chi giova il Jova Beach, party trasversale del nuovo greenwashing.

Clicca sull’immagine per leggere il post su Giap.

Tra pochi giorni questo “grande evento” si concluderà a Linate, sulle piste d’atterraggio dell’aeroporto appena riasfaltate. Sarà una festa di bitume e catrame. La nocività della miscela tossica messa a punto durante le precedenti date del mega-show non sarà per questo meno dannosa, così come non decadrà in futuro la sua tossicità: non si tratterrà magari di Jovanotti, ma la funzione sistemica che questo personaggio ha rappresentato potrà essere riattivata nuovamente, in nome del capitalismo impegnato oggi nel tentativo di fare della crisi climatica uno strumento di potere che alimenterà diseguaglianze e ingiustizie.

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