Oggi, l’8 agosto di 229 anni fa, Jacques Balmat e Michel Gabriel Paccard calcavano la vetta del Monte Bianco, primi bipedi implumi a riuscirci. Il racconto che segue è il piccolo omaggio di Alpinismo Molotov* e di Tifiamo Scaramouche a quella che tradizionalmente viene identificata come la nascita dell’alpinismo propriamente detto.
… Alla fine dell’intervista, dopo che Jacques Balmat ebbe finito di scolare l’ultimo bicchiere della terza bottiglia, pensai bene di suggellare il suo eroico racconto della prima ascensione del Monte Bianco con una bella frase ad effetto che ne riassumesse la fatica e la prostrazione a cui lo portò l’impresa, sicché sentenziai giulivo: «Insomma… No brioche sul Monte Bianco!».
L’uomo, fino a quel momento allegro e chiacchierone, sbiancò, proprio come il monte che l’ha reso famoso. «Dove avete sentito questa frase?» chiese con un fil di voce.
«Oh è solo un gioco di parole che mi è venuto in mente così, al momento» mi affrettai a tranquillizzarlo, preoccupato e stupito dal suo repentino mutamento di umore.
Non sembrava convinto per cui aggiunsi: «Secondo alcune cronache il 14 luglio 1789 su una delle mura perimetrali della Bastiglia, subito dopo la sua presa, comparve un enorme graffito:
PAS DE BRIOCHE SUR LA RÉVOLUTION
Credo fosse la risposta dell’estro popolare alla leggendaria dichiarazione attribuita a Maria Antonietta, sì, quella per la quale il popolo avrebbe dovuto darsi alle brioches in assenza di pane… M’è venuto spontaneo associare la vostra gloriosa presa del Monte Bianco alla presa della Bastiglia, tutto qui».
Ma la mia chiosa non tranquillizzò Balmat. Eravamo rimasti solo io e lui alla tremolante luce della lampada, Payot – la mia guida – si era defilato mezz’ora prima, poco dopo l’aveva seguito l’oste, entrambi dovevano essere ben stufi di sentire la solita frusta storia del vecchio Balmat. Sul tavolo tre bottiglie vuote di vino di Montmeillan e una piena in attesa. Mentre la stappavo il mio ospite riprese a raccontare: «Quella frase, tale e quale a come l’avete detta voi, la rinvenni tracciata su un muro di ghiaccio, in cima al Dôme du Goûter quando tentai di portare monsier de Saussure in vetta al Monte Bianco, nello stesso agosto 1786, quindi tre anni prima della presa della Bastiglia!».
Sentivo di essere il primo ascoltatore di quell’appendice inedita della solita storia, mi affrettai a riempirgli il bicchiere mentre lui continuava: «Sapete, il Dôme du Goûter si chiama così perché il sole di solito ne illumina la vetta nell’ora in cui si fa la merenda, perciò interpretammo quell’allusione alle brioches come una burla di qualche compaesano… Eppure salire in groppa al Dôme non è uno scherzo: saranno più di dodicimila piedi da Chamonix!».
Svuotò il bicchiere e proseguì con voce pastosa: «Poche ore prima però mi era sembrato di scorgere con la coda dell’occhio una specie di ombra furtiva tra i crepacci del ghiacciaio di Bossons. Pensavo si trattasse di uno scherzo della mente, come la fata morgana… Ma ai Grand Mulets distinsi chiaramente una sagoma, una figura sinistra dotata di un naso spropositato, come una specie di becco di cicogna! Cercai di additare la mostruosa comparizione a monsieur ma essa si dileguò in un attimo. Il mio cliente mi disse che forse mi ero confuso per via del riverbero del sole sulla neve, ma sole non ce n’era in quel momento!».
Cercai un modo per svignarmela, come Payot e l’oste. Sapevo che era abitudine dei valligiani favoleggiare di creature mitiche locali. Ce n’era una per quasi ogni valle, come stemmi araldici popolari ad uso e consumo dei visitatori stranieri più allocchi: c’era il bestione peloso, il corvo a tre zampe, il cervo bianco e ora l’uomo dal becco di cicogna! Che delusione però che anche il grande Jacques Balmat detto Monte Bianco si abbassasse a simili mezzucci per turlupinare il viandante! L’uomo questa volta si riempì un altro bicchiere da solo, come a farsi forza. Qualcosa nei suoi gesti e nella sua faccia mi indusse però a restare ad ascoltare. Mi riempii un bicchiere anch’io, sarà stato il terzo della serata contro le tre bottiglie e passa del mio interlocutore.
«Come vi dicevo la scritta in vetta al Dôme fu interpretata dagli altri come uno scherzo da prete, “saranno stati Tournier o Carrier, magari addirittura il vostro amico Paccard!”, mi dissero i portatori. La spedizione non era così grossa come quella che l’anno successivo avrebbe portato monsieur de Saussure in vetta ma eravamo comunque in sette: c’era un’altra guida – Cuidet – un servitore personale di monsieur e altri tre portatori, uno era addetto alle vettovaglie e gli altri due agli strampalati aggeggi di scienza del mio esimio cliente.
Ebbene al Col du Dôme rinvenimmo un’altra scritta nella neve:
LA RIVOLUZIONE NON SI FARÀ CON GLI STRUMENTI SCIENTIFICI
Anche monsieur iniziò a innervosirsi, soprattuto quando aggirato un costone lesse la terza scritta:
LA RIVOLUZIONE NON SARÀ CONDOTTA DA ARISTOCRATICI IN REDINGOTE
E ancora, un po’ più avanti
LA RIVOLUZIONE NON SI AVVARRÀ DI SCALETTE, PERTICHE E ARPIONI
Era evidente che si riferisse all’armamentario da noi usato per attraversare alcuni crepacci sul Grand Plateau. L’autore di quelle scritte doveva precederci di poco! Vedete, oggi ormai sono in tanti ad aver calcato le terre alte del Monte Bianco ma all’epoca solo due persone erano riuscite prima a raggiungere il punto in cui ci trovavamo: io ed il dottor Paccard, nessun altro! E conoscevo bene il dottore, non era lui il birbone, anche perché poi un’ulteriore scritta diceva:
LA RIVOLUZIONE NON SI FARÀ PER UN PREMIO IN DENARO
E quella era una precisa stoccata a me e Paccard.
La presenza che ci dileggiava e aveva il tempo e l’agio di tracciare frasi astruse a caratteri cubitali nel ghiaccio e nella neve ci inquietava tutti non poco. L’ultima frase che leggemmo fu:
LA RIVOLUZIONE NON SI FARÀ CON PORTATORI E SERVI,
LA RIVOLUZIONE METTERÀ TUTTI AL POSTO DI GUIDA
Subito dopo si staccò un’enorme fragorosa valanga dalla cresta de Les Bosses che spezzò il gruppo. Io mi ritrovai staccato dagli altri, lo spostamento d’aria mi sbalzò nel vuoto. Ero spacciato! Riuscì istintivamente ad afferrare una roccia affiorante dalla neve. Rimasi aggrappato lì con le gambe che penzolavano nel baratro. Fu allora che a pochi piedi sopra di me comparve l’essere! Il terrore della visione mi fece addirittura scordare del terrore del vuoto: aveva un teschio con delle enormi occhiaie al centro delle quali brillavano delle pupille fredde che mi fissavano e poi c’era quel rostro lungo e acuminato sopra la bocca! Rimanemmo lì, occhi negli occhi, per un istante interminabile, quindi con mia enorme sorpresa mi gettò un canapo, una lunga ma solida corda che afferrai con forza. Mi tirai su fino a raggiungere una clessidra di ghiaccio, al sicuro, alla quale l’individuo aveva legato la fune con un cappio. Di lui non c’era più traccia. Una corda in montagna! Non ci avevo mai pensato a quanto potesse essere utile!
Discesi la costa alla ricerca degli altri, li ritrovai più in basso sani e salvi, stavano ritornando a valle e quando mi scorsero mi guardarono come fossi Orfeo di ritorno dall’Ade: mi avevano creduto sfracellato in fondo al burrone! Scendendo non trovammo più le scritte, forse avevamo leggermente cambiato percorso ma monsieur concluse che eravamo stati tutti vittima di un’allucinazione collettiva.
Eppure io vidi un’ultima scritta mentre attraversavamo il ghiacciaio di Taconnay, era tracciata su una lastra di ghiaccio, era la più incomprensibile:
LA RIVOLUZIONE È NELLA MONTAGNA!
VIVE L’ALPINISME-SAVATE!
Ora il termine alpinismo è di gran moda ma quella era la prima volta che lo sentivo nominare anche perché non è che allora si andasse per monti come si fa oggi! Eravamo pochissimi nell’intero orbe terracqueo a rischiare l’osso del collo per una vetta! E poi savate? Cosa voleva dire Alpinismo Ciabatta?».
«La savate è una tecnica di lotta usata dai marinai e dagli operai del porto di Marsiglia» dissi io, confuso. C’era un legame tra il Monte Bianco e la Rivoluzione? C’era ancora dello scetticismo in me ma poi, pensando a voce alta ebbi un’intuizione: «È incredibile, a pensarci bene, lo schieramento di deputati più radicali della Convenzione si fece chiamare La Montagna. Per la vulgata quel nome fu dettato dalla posizione alta degli scranni dove costoro scelsero di sedersi al palazzo delle Tegolerie ma una voce dice che ad ispirare quella nomea fu un graffito… Sì, una scritta arcana che diceva proprio: “La rivoluzione è nella montagna!”».
Presi un lapis e un foglio di carta e chiesi a Balmat: «Sapreste farmi uno schizzo dell’uomo… Ehm con il becco da cicogna?». L’anziana guida esitò ma poi prese coraggio e tracciò una figura sul foglio con rapidi segni, quindi mi allungò il risultato. Era una figura familiare, sembrava una maschera italiana. «Ma certo! Scaramouche!».
«Chi?».
«Scaramouche è una macchietta da teatro ma negli anni della Rivoluzione a Parigi, poco dopo che fu spiccata la testa al Capeto e alla sua consorte, comparve nel foborgo di Sant’Antonio un giustiziere solitario che portava quella maschera!».
«Io in verità… L’avevo già visto» aggiunse Balmat con mestizia dopo un po’.
«Cosa?».
L’uomo combatteva con se stesso. Era come se avesse un nodo in gola da sciogliere, un grumo di passato che ne aveva larvato l’animo per anni. Era un fardello di cui doveva liberarsi, un debito di riconoscenza forse, verso quel figuro che d’altronde gli aveva salvato la vita.
«Avevo intravisto quella maschera anche poche settimane prima, quando ero salito per la prima volta sul Monte Bianco con Paccard… Anche quella volta vidi una scritta».
«Dove?».
Fece un sforzo immenso, scolò l’ultimo bicchiere di vino e finalmente lo disse: «Sul manto nevoso della vetta».
Ammutolii, dunque Balmat era un’impostore? Non era lui il vero “Monte Bianco”?
«Che scritta? Cosa diceva?».
«Una sola parola, di quelle che usate voi cittadini» borbottò nervosamente.
«Quale?».
«Negoddìo».
Mille scuse a Jacques Balmat,
Alexandre Dumas e
Gil Scott-Heron
* L’autore del racconto si è firmato Alpinismo Molotov, è un singolo ma è ognuno di noi, è chiunque condivida prassi e sguardo del nostro andare per montagne [NdR].